Recensione di Ilaria Guidantoni
Carnet de bord di un appassionato del Sahara e della lezione del deserto, minuzioso e minuto come una mappa di navigazione e per questo talora il libro può risultare faticoso per chi non ha alcuna idea dei luoghi. Il messaggio centrale arriva però dritto al cuore: il deserto è la terra della natura che guida la civiltà, del gruppo che prevale sul singolo – questione di sopravvivenza – dell’adeguamento quale regola di vita. Il deserto lo si può affrontare da turisti e si viene respinti, tenuti ai margini come pensare di conoscere un animale visitandolo allo zoo; oppure da viaggiatori, immergendosi, con l’umiltà dell’ascolto. E’ il luogo del nomadismo dello spostarsi “anche senza un obiettivo preciso. Ma non per questo senza una ragione”. Andare altrove è aprire una nuova possibilità, magari migliore. C’è forse una ragione intima e ontologica dello spostarsi in quanto tale per colui il quale la vita è un viaggio, all’insegna dell’irrequietezza. Borelli sono decenni che frequenta il Sahara, tornandoci attratto da un richiamo irresistibile, da quando era studente di architettura, fino alle nuove fasi della sua vita; da sperimentatore a guida, come una metafora esistenziale. Da neofita, assaggiatrice del deserto e frequentatrice del Maghreb, ho provato una profonda nostalgia in queste pagine nonché il piacere dei piccoli aneddoti, degli excursus linguistici, della conferma che le tappe del viaggio sono disegnate non da obiettivi, luoghi e monumenti – non principalmente almeno – quanto dagli incontri umani, come testimonia l’ultimo capitolo che dà il titolo all’opera. Il centro del viaggio è l’Algeria che purtroppo non conosco se non attraverso le parole e le emozioni dei miei amici algerini, con delle ‘incursioni’ in Niger, Libia e in Tunisia, il paese dove piano piano sto mettendo radici. Non vorrei cadere nella tentazione di fare un riassunto: il libro non è una storia, è uno spezzone di vita, un pezzo di viaggio, da vivere per assaporare il clima dell’avventura nel deserto, fuori dalle rotte tracciate e definite; dove l’imprevisto può essere una possibilità foriera di ricchezza. Mi piace quell'inserto ben dosato di francese, di arabo, di berbero e di dialetti locali, che non solo arricchisce alcuni passaggi dove la traduzione perderebbe di intensità; quanto lascia intravedere il clima di contaminazione dei popoli proprio attraverso la molteplicità delle lingue che vi si parlano e che a mio parere resta una delle esperienze centrali di ogni viaggio. Tra l’altro il sincretismo linguistico e religioso svela molte componenti della storia di quei popoli che hanno vissuto di stratificazioni successive e inserzioni non sempre pacifiche, dai Peuls ai berberi, ai Touareg. Altro elemento nel quale mi ritrovo pienamente la distanza e la lontananza dell’Europa dalla vicina sponda sud del Mediterraneo, con particolare riferimento alle vicende e alle tensioni politico-religiose che hanno caratterizzato l’Algeria ad iniziare dagli anni 1991-1992. “Lettera da Agadez” non è un saggio e neppure una guida, anche se lo diventa suo malgrado, è una
Presentazione 10 Marzo 2011 - Calenzano Alto - FI |